Può esservi uno stadio critico dell’esistenza in cui, per il verificarsi di circostanze inimmaginabili, l’anima, percorrendo impervi cunicoli occulti, si ridesta in altro inizio…

 

 

Antonella Gandolfo Lima Rampolla

X e Y nella nebbia

 

L’uomo si accorse che in lui, ferma a mezz’aria, vagante da un prima vuoto a un dopo più vuoto, c’era l’idea fissa: -Oggi è il 31 di ottobre, Halloween, il nostro anniversario…-

In realtà, ormai tanto tempo era passato da quel lontano ‘loro’ 31 ottobre, felice ed insieme crudele: più crudele che felice, poiché quella singolare data che li aveva uniti li aveva anche definitivamente disgiunti e quell’oggi era solamente un giorno come gli altri, sporcato da una fitta coltre di nebbia.

L’ovattato umidore fumoso, ispessito tanto da suggerire una sensazione d’impalpabile bambagia astratta, aveva un duplice potere: era come una lenta ma inesorabile opera di penetrazio-ne sin ai più nascosti recessi dell’anima e contemporaneamen-te di esclusione dalla realtà circostante.

La strada era inspiegabilmente deserta, malgrado la turbinosa circostanza tradizionale, i muri muti, chiusi da finestre cieche, le porte lucchettate da amnesie improvvise, e Halloween? No!

Lui, con gli occhi bendati, col cuore bendato, abbacinato da un passato aguzzino del presente, lui, Xenos, abitualmente X, si sentiva circuito dal sudario dei ricordi, o meglio da un qual-cosa di aggressivo e misterioso che non poteva vedere e nem-meno immaginare, ma avvertito egualmente con nitidezza.

Cercando di non pensare, egli provò ad avviarsi verso dove sapeva essere la sua abitazione in cui ormai conviveva da tempo con la solitudine…

I piedi con timorosa cautela tentavano di ormeggiare il breve spazio visibile a loro antistante. Andava l’uomo, con accuratezza, quasi tastando passo dietro passo il terreno. L’incedere, però, sembrava esitante, quasi spaventato di seguire l’imposi-zione razionale di andare avanti per imbucarsi finalmente in casa. Il suo udito era sotteso a fornire eventuali avvertimenti captabili in quel silenzio anomalo ed ostile. In conseguenza egli percepiva nell’improvviso ispessimento della cortina neb-biosa un senso indistinto di malessere, d’inconsulto inspiega-bile timore. Implacabile, il silenzio, irreale per quel giorno pazzo, come per un rimbalzo taciturno d’echi, continuava intanto ad accendergli la campana di quel ricordo bivalente: 31 ottobre, quell’anniversario, no! Quegli anniversari. Pertan-to, tra sfatti respiri di vapore in dissolvenza, da un indimensio-nato lido, gli rintoccò, immediato, lo stillicidio serio e scher-zoso della voce di lei: “Mi hai avuta nella zucca di Halloween, perché io sono duplice, il bianco ed il nero. Perché sono due.”

Sussultò e, quasi a scollarsi dall’anima quella voce, tentò di allungare il passo, seguendo con la mano la rugosità del muro. …Allora, poco più indietro, sentì aprirsi una porta che poi si chiuse lievemente… Un passo leggero gli si avvicinò e con stupore egli recepì la speditezza di quell’andare su dei tacchi, sottili (così gli parve dal rumore), quasi certamente di scarpe da donna. Senza un perché, la sua mente stanca abbinò quel ticchettio ai crudeli colpi della torre Stuart che in altro 31 Ottobre avevano scolpito la fine. Pure adesso gli parve che un invisibile orologio segnasse quella medesima ora, le 19.00…

Il picchiettio sull’asfalto si andava approssimando e lui, te-mendo che la persona potesse non vederlo, quando gli fu vicina diede, impacciato e nervoso, sentendosi ridicolo, un violento colpo di tosse. Quella comparsa lieve, quasi scaturita da un sipario inconsistente, lo metteva a disagio. Avrebbe vo-

luto allungare il passo e mostrarsi disinvolto e spedito, ma quella nube condensata di vapore acqueo lo bloccava, cattu-randolo in un’atmosfera irreale… Il ticchettio si approssimava sempre più. Ora ne era sicuro: il passo agile e svelto era certa-mente di una donna… Egli non voleva girarsi e aspettava infa- stidito che la sconosciuta lo superasse.  Eccola! Sobbalzò!

Una strana voce dolce, alitatagli accanto con una cantilenante pronuncia straniera, gli sussurrava: “Posso accompagnarla?” Egli si sentì arrossire intimidito, ma non ebbe il tempo di ri-spondere alcunché, poiché la misteriosa interlocutrice gli mo-strò una minuscola torcia che teneva nella mano guantata. L’uomo, tra lo stupito e l’impacciato, farfugliò un grazie scontroso e la donna, con gentilezza suadente, gli infilò una piccola mano leggera sotto il braccio. Indi, con inaspettata fermezza di passi e di direzione lo guidò con andatura veloce e sicura. Più che mai confuso, egli tentava di seguirla, cercan-do di apparirle meno goffo e imbranato in quell’ossessivo grigiore. Intanto, sentiva dentro di sé aumentare il senso di sottile disagio e allo stesso tempo un’ansietà vaga che strana-mente lo turbava. La nebbia, complice di quell’insolito incon-tro, infittiva sempre più la sua garza impenetrabile che benda- va occhi e pensieri e vestiva di irrealtà.

Egli, per quanto si sforzasse, riusciva appena a adocchiare uno scorcio di marciapiede. A pochi passi da lui era il nulla. Lon-tani, troppo lontani erano echi di rumori incerti, nudi della scoppiettante turbolenza della notte delle streghe, quasi intermittenze impolverate da macabre evanescenze…

La sua compagna, invece, aveva un’inspiegabile prontezza di

movimento, tanto da sembrare dotata di magici radar.

X, il nostro uomo, andava rimuginando dentro di sé che avrebbe dovuto dire qualcosa, se non altro per non fare total-mente la figura del povero cieco, trascinato come un sacco inerte. Ma si sentiva secco e svuotato, penosamente avvinto e rimorchiato da un forza oscura: aveva la premonizione, quasi avvertibile già sensorialmente, di una qualche latenza, di una possessione misteriosa e suggestiva…

La donna sembrò leggergli dentro e con la sua irreale voce strascicata e suadente gli bisbigliò: “Non si preoccupi se non trova nulla da dire. Tra poco ci siamo.” X, stupefatto, riuscì a balbettare solo un “dove?” impersonale. Ma la sua domanda gli suonò falsa, stonata, caduta come un sassetto nell’acqua ferma di uno stagno, nera nel grigio…

Per fortuna, la sconosciuta sembrò non avvertire l’ipocrita indifferenza della voce nella fatuità dell’avverbio e, alzando la lampadina verso il volto dell’uomo, gli rispose lievemente con languida dolcezza: “In fondo alla via è la sua casa! Quindi tra non molto è arrivato.” X trasecolò! Come quella misteriosa compagna poteva conoscere il suo indirizzo? Tuttavia, poiché la cosa gli aveva scatenato un assurdo senso di pace, tacque.

Gli parve che la donna avesse concluso la frase con un lieve sorriso… Lampo! A lui, quel sorriso sembrò avesse dentro una droga capace di accendere il nulla… Comunque gli era bastato quello sprazzo luminoso per scorgere il viso della sconosciuta, incorniciato dai lunghi e mossi capelli neri che le davano un’impronta zingaresca.

Un brivido di fuoco e ghiaccio gli era serpeggiato lungo la schiena! Dentro aveva sentito il cuore dilaniato battergli im-pazzito!... I denti, mordicchiando convulsamente il labbro,   strozzarono un grido. 

Quel particolare volto, allungato e caratteristico in cui gli occhi manifestavano forse un oscuro stato di accoramento, gli aveva trapassato come un chiodo l’anima… Quel viso a lui era  notissimo, anche se tanto paradossalmente diverso… Era il viso di sua moglie, sempre sorridente! Sentì in gola un nodo amaro e oltre quella voce ormai chiusa nei recessi dell’anima:

“… Io, Y ero e sono, una e duplice. Come un’ombra è il mio donarmi  e non. Come fumo è il mio sorriso. Come candela è l’amor mio. Sfuggo nel prima come nel dopo…”

Alle labbra gli salì quel nome che ormai da anni non proferiva più a voce alta:

-Yuna!-…-

La sua per sempre ‘Ipsilon’…- (così la chiamava scherzosamente, usando la lettera iniziale del suo nome). Ma la nebbia sigillò la sua bocca, come se fosse un bavaglio intriso di un umidore maligno e quel nome gli restò incollato nella gola secca. Anche le gambe ora face-vano sempre più fatica a seguire la speditezza agile e disin-volta della guida improvvisata che pareva possedere, in quei suoi occhi scuri, un rilevatore miracoloso che dava l’orien-tamento ed avvertiva gli ostacoli. -

A tratti l’uomo, sospettoso e stralunato, di sottecchi tentava di sbirciare la figuretta avvolta in un cappotto nero, qual posticcio mantello da strega.

Ma la sera era davvero straordinariamente buia e quella velina di umidità incombente sembrava fuliggine, impalpabile ed ostile che lo estraniava da tutto. Anche le case che si ergevano attorno con una loro sinistra silenziosità, parevano corpi infor- mi che s’intuivano sfocati, come gigantesche cancellate senza possibilità d’accesso né di fuga. I lampioni sbucanti qua e là lungo via, qual inutili birilli agonizzanti, proiettavano verso l’alto dei baluginii di un giallo smorto sempre più esangue che si affogava in quel mare grigio di vapore. Null’altro! E, senza frastuono di traffico, senza vociare di maschere, senza luminarie di zucche, loro due, soli, fantasmi di nebbia nella nebbia…

La massa dei capelli fluenti che come un addobbo funebre incorniciava la testa della sconosciuta, quasi lo accarezzò ed egli si sentì intensamente turbato, come quando, in passato, la sua donna lo sfiorava… Provò dentro una tristezza nuova,  diversa da quella rassegnata e passiva che continuava ad avvertire da quando lei, la sua Y, se ne era andata per sempre.

Come a sottolinearla, il suo io riudì i lugubri rintocchi dell’o-rologio della torre Stuart, sette e sempre sette, immutabili,  nella loro drammatica fissità numerica, malgrado il passare del tempo: con stimmate di fuoco avevano crocifisso quell’ad-dio e continuavano a flagellare la memoria! …Ossessione!

Ora nella sua mente si ammucchiavano scampoli di pensieri confusi e ricordi… Gli sembrava che il tempo mentale di tali contorte sensazioni e del rimuginare il passato che ora non era più, non proseguisse di pari passo con il tempo fisico che egli impiegava per camminare, agganciato al braccio morbido del-la sconosciuta che per lui sconosciuta non era…

Non gli importava trovare una risposta, anzi, assurdamente si adagiava in quella data, in quell’ora…

…Rivide i capelli di sua moglie, ricci e biondi, come una parrucchetta lucente. Egli le diceva fremente e innamorato: “Pecorella, ogni riccio hai un capriccio!” E lei con un buffo vezzo infantile faceva il verso. Poi, con un balzo di selvaggia sensualità, abbracciandolo, gli sussurrava languidamente: “Ogni riccio un gioco d’amore!...”

… Ricordò la gita in barca insieme a lei sul fiume Wye che si

snodava tra prati e boschi fino all’abbazia di Tintern, dalle  mura coperte di edera, muschio e licheni… La rivide pas-seggiare tra le pietre e i pilastri spezzati, curiosa di tutto. Rideva e si beava dell’armonia del paesaggio e, tra colonne e archi qual fontane di pietra, del caldo colore dei massi che si fondevano col cielo e con il verde intenso degli abeti, dei fag-gi, delle querce e degli olmi… Com’era fatata Y, inondata dal  sole sul tappeto erboso, tra battiti d’ali e richiami di piccioni o quando vagava tra i ruderi, inargentati dalla luna piena!... Com’era bella Y, con quel viso tondo e rosato, rosato anche in quell’ora gelata in cui aveva rinchiuso per sempre nell’oscurità della bara la sua giovinezza, la sua straordinaria vitale esuberanza…

Una mano di ghiaccio gli serrò lo stomaco ed egli, per un attimo, quasi barcollò. La sconosciuta gli strinse fortemente il braccio con il suo e senza girarsi gli sussurrò in un soffio: “No, non serve: dopo il prima c’è… il poi.” X neanche si stu-pì, anzi gli parve che andando in quel tunnel di nebbia si fosse infilato in un tragitto ultraterreno: la sua guida, chiunque ella fosse, lo direzionava ad una fantomatica meta ove sarebbe avvenuta una metamorfosi d’incontro o… d’incontri.

Come un automa, schiacciato da una turbolenza confusa in cui l’assurdo di una speranza e la rivolta di una sconfitta si fonde-vano, egli aveva l’impressione che quell’eterna catena di gior-ni cadutigli addosso da allora, lo ghermisse. A difesa, avrebbe voluto parlare con quell’entità misteriosa, sapere chi fosse e cosa volesse. Ma la caligine esterna lo atrofizzava, gli bendava la bocca. Gli dava una specie di sonnolenza in cui aveva l’impressione che il suo dolore si sciogliesse e che l’agile spirito a lui d’accanto fosse un ritorno…

Viveva forse in una dimensione dell’occulto, dove ogni cosa,

pur incomprensibile, è posseduta prontamente? Sì, l’impal-pabile cappa di una sera medianica gli faceva da pentagramma su cui leggere l’ignoto del poi posseduto come presente.

In velocissime sequenze rivide la lunga serie dei giorni rossi del loro frenetico amore, tutti baci e scenate, lacrime e rabbia, parole di miele e di fiamma, languore e furia d’appartenersi: due anime agli antipodi che per vivere avevano bisogno l’uno dell’altra, collericamente innamorati, dilaniandosi di fughe, di ritorni, di giuramenti d’acqua… Lei, la sua adorata, la sua Y era una bugia di bambina, ape regina, astutamente limpida! Con quella pelle di petalo rosato e la bocca a cuore sorrideva sempre, impassibilmente sempre! Sì, anche quando le parole che sgusciavano da quelle sue labbra turgide di fragola erano frustate a sangue e i suoi morsi di voluttà stimmate di fuoco.

Ecco la loro breve storia: una montagna russa di ferite e di risate, una vita d’amore e di pianto, esasperata da quel mai trovato colloquio tra loro due. Y era stata la sua sconosciuta, bevuta fino all’ultima fibra dell’anima, fino a conoscerne i pensieri più segreti ed inespressi e insieme ignota tanto da non sapere attimo per attimo l’evoluzione di quella loro passione, droga di latte e d’aceto!

Si sentì bagnati la faccia e il palmo delle mani da un sudore umidiccio, appiccicato all’epidermide da invisibili dita di spettri. Gli sembrò di continuare a camminare da un’eternità di tempo e si sentì sempre più stanco.

Un lieve movimento d’aria, forse causato da un rapido inserir-si nella nebbia di nere ali di pipistrello, smosse i lunghi capelli della compagna. Egli allora avvertì quel profumo intenso, caratteristico che piaceva tanto a Yuna. Così, tutto il suo esse-re fu in quel profumo vivo e labile, come quel volo radente intravisto e non, come i suoi pensieri cincischiati, nebulizzati.

La bruna creatura crepuscolare ancora una volta svolazzò bassa, sottolineando con l’ali nerastre silenziosissime  la totale

mancanza di sonorità alcuna: falsa per quell’ora, solitamente intensa nella grande città, in cui ogni passo, ogni parola chiu-deva un rapporto di lavoro, di convivenza forzata, reinserendo ciascuno nell’intimità della propria scatola domestica. Né l’eccezionale sospensione di goccioline, formatesi per con-densa, giustificava l’assoluto ammutolimento del traffico cit-tadino e di qualsiasi respiro vitale. Infatti, inspiegabilmente, anche lo stregonesco rituale della notte di Halloween, forse stravolto da una feticistica afonia, chissà perchè non esibiva come al solito i chiassosi cortei di scheletri e streghe.

-Travisamento di un’usanza o deviazione della mia anima nei labirinti dell’aldilà?- Pensò l’uomo e ciò non gli fece paura, indi concluse: -Non sono a Londra, ma nel sottosuolo del  mondo, in un medianico oltretomba che m’incapsula la mente in una sfera priva di onde sonore. Questo silenzio non è umano: è il mio ultraterreno ascolto dell’accadimento, ip-notizzato da occhi bianchi di nebbia, è il tacito parlare di Yuna acceso e subito smorzato…-

In verità quella taciturnità morta era l’anelito del cuore che, come un baco chiuso nel bozzolo dei ricordi, si filava attorno parole del passato, ormai afone; ed era anche assemblaggio di sensazioni fisiche e percezioni prive di confine tra il reale e il metapsichico, elaborate quando l’amore riesce a valicare la morte… Così la nebbia, il luogo, il volto vecchio dell’ora, quel profumo intenso ed indimenticabile che era oggi ed in-sieme ieri, furono per l’uomo musica del prima e il non suono divenne note, le note di Telemann che sempre suonava Y.

Lei, con occhi persi in sconosciute isole d’incanto suonava e fantasticava, dipingendo la melodia con parole di cristallo, slegate e pure fuse in visioni fluttuanti, intensamente erotiche.

Quindi, scioltasi dalla sua umanità, fuggiva dalla stanza, da lui, dalla sua stessa vita e come esplosiva energia solare, si fondeva agli elementi della natura. Così, bizzarra pittrice di armonie, sussurrava parole, filando fantastiche fiabe, dando colori e forme a quelle note sgorgate dalle sue mani…

Il ricordo spaccava ora l’anima dell’uomo e riempiva le sue orecchie. Come uno zampillo d’acqua fresca torturava la sua sete, malgrado gli ormai troppi anni di dolente solitudine. Se quella non era la voce della nebbia o la burla stregonesca della notte di Halloween, o il vaneggiare del suo delirio, la scono-sciuta (lei o l’altra?), adesso bisbigliava argentee chiocciole di parole, accennando… quel motivo.

Forse i suoi piedi, pensò, andavano a ritroso ed egli ritornava su piste arcane nell’estinto circuito del suo passato.

Allora, sgusciato dal nastro della sua memoria, uno strano biglietto che Yuna gli aveva scritto subito dopo aver suonato il suo pezzo preferito, gli riaffiorò sulla lavagna della mente. Glielo aveva letto lei, accoccolata come un gatto tra le sue braccia, fremente e vogliosa, mordicchiandolo come un lemming affamato:

“Ascolta… X, mio alter ego che amo sopra ogni cosa, sei con me nel seno di questo mare di acqua e suo-no, sei con me nella nebbia e nel vento… Ti amo e ti odio, mio Xenos, tradito con tutti ed unico nel mio destino… Ti amo con l’odio ribelle della donna posseduta e ti odio con l’amore ingordo  di chi  non può fare a meno di te. Ti posseg-go e ti annullo in me, mi possiedi e mi annulli in te, per sem-pre. Ricordalo.”

Così aveva scritto Yuna, creatura forgiata forse da forze occulte, ridendo, piangendo lapilli di tenerezza e fole di lussuria...

Ancora una volta, come partorito dalla nebbia, un pipistrello, feto mostruoso della notte delle streghe, sfiorò, bassissimo, la testa dell’uomo. Poi, come fulminato dal baluginio paglierino d’un lampione, si disintegrò nel nulla…

La voce dolce della sconosciuta sussurrò:

“Ancora poco Xenos e… sarai giunto.”

Sobbalzò X e si accorse che il suo non era stato un ricordo, ma una trascendenza avulsa dal contesto attuale: un attimo non fatto di respiro di tempo, bensì di fiato nebbioso dell’oltre. Così quel prodigio era divenuto pennello di note, labbra di parole e mani di lei che ancora quella sera suonava Telemann ed insieme sorreggeva la piccola lampadi-na ed il suo braccio… Desiderò spasmodicamente che la musica lo avvolgesse ancora e per metempsicosi quell’identità i-gnota che gli era accanto, divenisse concretamente la sua Yu-na. Invece imperavano il silenzio e la fitta condensa, però non come fattori esterni, lo capiva, bensì come quinte di un qual-cosa di occulto: come una spirale che lo avviluppava e lo rein-seriva, senza pietà di quel suo dolore privo di rassegnazione, nella fornace del passato. Senza stupore il nuovo X che era in lui s’interrogò: - Quest’apparenza involucro e contenuto della mia donna è venuta per guidarmi nel limbo dell’ultraterreno, dove il nulla è ed ogni polvere del nulla è goccia del tutto? Un prima finito, divenuto un poi infinito?...- Si precluse risposte e un esile sorriso nacque e svanì sulle sue labbra. Egli, ormai  entrato in una dimensione nuova, a lui del tutto congeniale, sentì che l’evoluzione di quella strana serata era per prestabili-to volere la continuazione della sua storia. Capiva finalmente! La morte era quella nebbia, una fuliggine che offusca i sensi e fa sipario. Ma, oltre tal uscio, ritenuto invalicabile, lucciole di entità corporee continuavano il loro brillio e  attendevano nuova veste per rinnovare contatti… Come lenito dall’unguento della rassegnata accettazione, egli per la prima volta raccoglieva quell’incontro e gli si donava, avvertendo l’ineluttabilità del prestabilito…

Senza un perché gli sembrò di essere, come tanti anni addie-tro, a Stonehenge, tra le basse colline di gesso di Salisbury e gli scomparsi boschi dei druidi dalle candide vesti, nello spoglio circolo di pietre grigie chiamato la Forca di Pietra. Egli e la sua Y erano le due pietre verticali puntate al cielo, parallele, senza incontro. Li riuniva solamente una terza pietra che aveva l’impronta della sconosciuta… No! Egli era solo, sulla Pietra del Massacro, rossa di umani sacrifici: addosso gli pesava, gelida e sepolcrale, una tunica di umidore, l’imbavagliava, biancastra, una benda di cenere e negli occhi  ciechi, nudo, aveva il suo karma…

Come i sette ossessivi rintocchi della torre, danzavano, tra tumuli sepolcrali, sette giganti pietrificati, l’uno con le mani sulle spalle dell’altro e a lui d’accanto le due ombre femminili si preparavano a sacrificarlo, fluttuando in preda ad un’euforia orgiastica. Si alternavano sovrapponendosi. Cantavano un funebre lamento, consono a quel luogo, forse un tempio, una tomba, un sito per cerimonie magiche in cui i morti tornavano ad accoppiarsi ai vivi… Dalla vetusta Torre Stuart, traslatasi per incantamento su un pianeta diverso dal suo, il gong del tempo rotolò ancora e ancora e ancora sette dadi!

Dove il tendaggio di vapore non permetteva allo sguardo di discernere alcunché, una porta si aprì con un cigolio indolen-te. Da dentro, ma lontano lontano, una voce ovattata cantilenò qualcosa… Era Yuna che stesa sul divano sciorinava lo scongiuro che sua nonna le recitava da piccina. Cantava la voce di nebbia sul gong di un tempo fermo: “…Bionda è la bella e bruna la sorella!… Se di Zoe che è la vita si è spenta la fiam-mella, Moira, la morte, può riaccendere la stella…”

…La notte divenne un imbuto e, sullo sfondo di un cielo tempestoso, tra irte rocce, lui andava lungo il fiume Severn.

Fatto di acqua torbida e di asfalto, il fiume era il marciapiede su cui avanzava a tentoni con la sconosciuta e con Y… Ades-so i loro passi, assurdamente taciti, varcavano la porta della nebbia… Formulò mentalmente la domanda: -Chi sei, bruna entità clonata?- La compagna gli sussurrò senza emissione di voce: “Sono Moira e Yuna.” E, spegnendo l’esile lume della  lampadina, gli alitò sulle labbra: “Ecco, sei giunto!”

 

Una porta sbatté e si chiuse… Una ridda di cenci affastellati su sagome nere, tra baluginii languenti di deformi zucche, riempirono la via di lazzi scurrili e ghigni sguaiati.

 

 

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